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Storia della carbonara

La Carbonara insieme all'Amatriciana (e non la chiamate "la Matriciana mi raccomando!) e alla Gricia, fa parte della cosiddetta "trilogia del guanciale", una sag(r)a gastrocosmica che si muove tra bucatini, mezzemaniche, spaghetti e rigatoni, dove il maiale nelle tre ricette, è il grande protagonista. Ma sembra che la Carbonara in particolare, soffra una profonda crisi di identità , che non è riuscita a risolvere neppure con sette anni di sedute dallo psicoterapeuta e con abbondanti dosi di pecorino romano. 

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La società multistratificata della cucina italiana

Può capitare di incontrare nella storia della cucina italiana, piatti di chiari e nobili natali, che vantano progenitori illustri: pensiamo a proposito al carpaccio, nato verso la metà del Novecento all’Harry’s bar di Venezia grazie a Luigi Cipriani, per soddisfare la richiesta culinaria e capricciosa della contessa Amalia Nani Mocenigo; oppure al baccalà alla vicentina,  merito del nobiluomo veneziano Querini, che cercando le Fiandre, finì invece per naufragare in un’isola delle Lofoten, a nord della Norvegia. O ancora scomodiamo la melomane pasta alla norma, il cui nome le fu attribuito  dal commediografo Nino Martoglio, che estasiato dalla bontà dell’intingolo, lo avrebbe paragonato all’opera di Puccini.  Poi, a parte i nobili di sangue, esistono i piatti che rivendicano natali non illustri ma origini degne di nota e da mostrare nel curriculum: il carrello dei bolliti (di cui era ghiotto Cavour) e la sua languida e atavica compiacenza a un piacere sibarita, i vincisgrassi dal loro gusto barocco e verace o le tagliatelle al ragù, orgogliosa e prodiga pasta felsinea capace di sfidare ogni spaghetto forestiero. 

Sulla tavola italiana appaiono poi altri piatti che manifestano già dal primo morso la loro origine popolare: sono ad esempio la pasta e patate partenopea (Napoli), i risi e bisi della laguna (Venezia), la cassœula meneghina (Milano), il lampredotto amato da Dante (Firenze), la mescciüa (La Spezia), il pani câ meusa (Palermo), i turcinieddhi (Puglia) e tanti altri ancora. Si sa che la fame aguzza l’ingegno e la cucina popolare è pura fantasia oltre che, infinita. A questi ultimi piatti che abbiamo elencato, che ancora sono riconducibili a un luogo specifico, se ne aggiungono altri, come le polpette, gli impasti fritti, le zuppe di pesce o le pietanze a base di uova, che risultano pressoché ubiqui, perché presenti in ogni cultura: sono cibi auto-nati, senza famiglia, generatisi dal nulla cosmico, capaci di parlare le lingue più diverse a seconda del luogo dove emigrano. Soltanto prendendo come esempio la polpetta, ecco una cornucopia di nomi che acquisisce in giro per il mondo: köttbulle,  köfte, thit băm viên, фрикаделька, chiftea, albóndiga, almôndega, klopsik, kjøttbolle, κεφτές, Fleischkloß, meatball, okruglica od mesa, masová kulička, boulette de viande, lihapulla.  Poi, in un angolo della sala da pranzo, si notano piatti come la carbonara. La carbonara quando la guardi, tutta cremosa dentro il piatto ti sorride, ma si capisce subito che è senza certificato di nascita.

Un piatto in cerca di radici

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Un piatto in cerca di radici

 

La carbonara, a differenza dei piatti già menzionati, non rivendica antichi natali né progenitori atavici.

Le prime tracce della ricetta secondo alcuni si incontrano nel 1944. Ma in realtà già nel 1881, Francesco Palma, napoletano, descriveva ne “Il principe dei cuochi” i maccheroni con cacio e uova, dove erano presenti formaggio, uova e sugna, insieme ai maccheroni.

Secondo quanto afferma Renato Gualandi, il cuoco bolognese che il 22 settembre 1944 avrebbe preparato il pranzo per l’incontro tra l’Ottava Armata inglese e la Quinta Armata americana a Riccione, fu lui stesso in quell’occasione a far nascere la carbonara. Ecco il suo racconto: 

“Gli americani avevano del bacon fantastico, della crema di latte buonissima, del formaggio e della polvere di rosso d’uovo. Misi tutto insieme e servii a cena questa pasta ai generali e agli ufficiali. All’ultimo momento decisi di mettere del pepe nero che sprigionò un ottimo sapore. Li cucinai abbastanza “bavosetti” e furono conquistati dalla pasta”.

(. . .)

Oggi, nell’era del dispotismo tradizional-alimentare autarchico, viene preparata seguendo il dogma che è stato ufficiosamente eletto per la sua ricetta: guanciale, pecorino (che può essere stemperato in parte con un pò di parmigiano), niente panna, pepe nero, un uovo a testa e l’acqua di cottura per creare la famosa cremina che provoca dipendenza. Un giorno ho visto un cuoco italiano di Ciriè, nel Canavese, che dopo aver scolato la pasta e aggiunto le uova il guanciale, aveva rimesso la pentola sul fuoco per terminare, a suo avviso, la cottura. Sembra che il proprietario del locale gli stia ancora correndo dietro, tra Courgnè e Caluso.

La storia completa della carbonara la trovate nel libro "Sapori nomadi italiani" a breve in uscita presso Leucotea edizioni. Per prenotare la vostra copia scrivere alla mail: irisbandb@gmail.com o contattate il 328 27 70 147

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Marco Sadori scrive di storia dell'alimentazione e degli interscambi culturali a tavola tra l'Italia e gli altri Paesi. Ha pubblicato la raccolta di storie brevi incentrate sul cibo Racconti sottolio (con un glossario dedicato ai cibi del mondo) per Ultra edizioni e ha in corso di pubblicazione con la casa editrice Leucotea, un doppio saggio sulla Storia della cucina italiana dall'antica Roma ai giorni nostri. 

Scrive articoli sui cibo e altri piaceri superflui e organizza workshop e conferenze sull'argomento.

Per collaborazioni scrivere a: irisbandb@gmail.com

o contattare il 328 27 70 147

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